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MOSQUITO COAST Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 17 marzo 1988
 
di Peter Weir, con Harrison Ford, Hellen Mirren (Stati Uniti, 1986)
 
Un film, sembra ovvio, nasce nel momento in cui lo sguardo di un cineasta si pone sulla realtà. Tutto, sulla carta, parlava a favore di MOSQUITO COAST. Il suo autore, tanto per cominciare: uno di quei registi australiani (e forse il più continuo) che, a partire dagli anni settanta ha inserito nel savoir-faire un po' sclerotizzato del cinema americano tutta la freschezza istintiva, il senso della natura, il piacere del racconto di una civiltà culturale ed estetica emergente. Poi, il tema: nell'epoca dei giocattoloni elettronici, il coraggio (grazie anche agli utili di WITNESS) di trattare un argomento nobile. Ripreso da un romanzo di Paul Théroux, tutto ciò che affascinò Cooper o Melville, Conrad o Defoe, Swift o Golding: la ricerca del paradiso perduto, la rimessa in questione del concetto di civiltà, la perdita dell'innocenza, la risalita del fiume come iniziazione e ricerca dell'identità, e via di seguito.

Fossi un produttore, non avrei esitato un attimo ad affidare a Peter Weir un progetto del genere: dai tempi di PICNIC AT HANGING ROCK tutto il suo cinema ci ha parlato della crisi dell'uomo in piena era tecnologica. E della sua aspirazione, per ritrovare la serenità perduta, a riconquistare la natura. Ad intrattenere con essa un rapporto genuino, e magico.

Questa magia Weir l'ha espressa, nei suoi film riusciti, attraverso uno sguardo particolare. Uno stile che trasformava la realtà in una visione fantastica: era la chiave che permetteva ai suoi messaggi, certamente utopici, di essere plausibili. Cosa succede in MOSQUITO COAST? Weir lavora su una sceneggiatura di Paul Schrader, l'uomo di TAXI DRIVER, del castigo che bisogna meritarsi, della redenzione su terra e via dicendo. Intendiamoci, un notevole professionista. Ed infatti il lavoro che compie sullo spesso romanzo di Théroux è tecnicamente ineccepibile.

Ma il risultato? Questa storia, cosi ricca di premesse, di un inventore che fugge New York per rifarsi una vita nella giungla, moglie e figliuoli, è un immenso budino che si sgonfia appena a toccarlo. Prevedibile, moralista, del tutto privo di humour, afflitto da una pedanteria che dei dialoghi doppiati beceramente non arrangiano di certo, MOSQUITO COAST assomiglia a quei tremendi telefilm per ragazzini che le tivù passano all'ora della merenda. Tutto è spiegato, predicatorio, condotto volente o nolente ad una tesi prefabbricata.

Succede: a non prendere Schrader con le pinze, a non seguirlo, come fa Scorsese, con uno stile che non ne sublimi gli aspetti martiriologici e facilmente dimostrativi. Succede, quando le immagini, come si diceva all'inizio, non seguono il resto: "ho voluto spersonalizzare il mio stile - ha detto Weir - renderlo banale, e quindi comprensibile al grande pubblico, per fargli accettare il lato insolito di questa storia".

Curiosa iniziativa: privato com'è di ogni proiezione stilistica verso il fantastico, ridotto ad un pallido tentativo di accedere alla dimensione visionaria, MOSQUITO COAST sembra una brutta copia dei film di Boorman, di Herzog o, prima ancora di Huston che hanno seguito l'uomo sul cammino dell'utopia.

Certo, rimangono alcune splendide immagini di paesaggi, il fiume che s'inoltra misterioso verso le proprie origini nella giungla, la presenza degli elementi naturali come l'acqua o il fuoco, la trovata straniante della fabbrica del ghiaccio in pieni tropici: frammenti, ancora più irritanti per la loro impotenza in quel mare di noia sconclusionata, di una riflessione che avrebbe potuto essere grandiosa.


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